Negli ultimi anni c’è stata molta discussione circa i micro ritmi e il micro time nella comunità dei musicisti.
La mia definizione di micro ritmi è che si tratta di tutte quelle sfumature ritmiche che vanno al di là delle soluzioni basilari consentite dalle figure e valori disponibili in notazione musicale.
La notazione non ci permette quindi di riprodurle fedelmente, perché sono troppo sottili per essere convertite in note che le rappresentino con precisione su un pentagramma.
Eppure possiamo notare facilmente che in tutta la musica di qualità, appena facciamo un’analisi abbastanza approfondita, emerge l’utilizzo dei micro rhythms a qualche livello.
La notazione musicale è solo una convenzione, una codifica, che facilita la comunicazione tra musicisti e permette di trasferire su carta quantità di informazioni che sarebbe impossibile memorizzare e condividere rapidamente in altro modo.
Sebbene sia molto pratica, è anche limitata e non ha molta flessibilità, poiché incasella tutto in griglie inevitabilmente piuttosto rigide.
A causa di questo, come sappiamo, dobbiamo interpretare quello che leggiamo (inteso qui nel senso più avanzato del termine, quello relativo alle sfumature).
Queste griglie vanno bene per capirsi, per orientarsi, ma non possono includere le infinite sfumature che la musica racchiude quando diventa molto espressiva.
Per tentare di sopperire a queste lacune esistono ad esempio un gran numero di termini che è previsto si possano aggiungere a una partitura: ‘rubato’, ‘accelerando’, ‘con grazia’, ‘calando’, ‘mosso’, ‘vivace’.
Ne esistono a dozzine e puntano a indicare dettagli che riguardano la velocità, il tono, le dinamiche e l’espressione. Proprio tutti gli aspetti sottili che la notazione non può rappresentare.
Ma in molte tradizioni, soprattutto non occidentali, si sono sviluppati approcci che non sono descrivibili neanche in questo modo, e che possono essere intuiti e suonati correttamente solo dopo una lunga immersione nella cultura musicale d’origine.
Pensiamo alla Samba, o ai Ritmi Cubani e Africani. Fondamentalmente la notazione occidentale, quella con cui siamo cresciuti e che usiamo per scrivere e leggere musica, si è sviluppata senza includere tali influenze, e quindi non prevede la possibilità di trascriverle, sebbene consenta una buona approssimazione.
Tentare di trascrivere certi ritmi con la nostra notazione musicale e in maniera perfetta è un’impresa impossibile, se non rifacendosi a improbabili funambolismi matematici con combinazioni di trentaduesimi mancanti o figure illeggibili e praticamente insuonabili anche da musicisti esperti.
Queste sfumature sono piccole deviazioni da pattern dritti e comuni, e le variazioni che comportano sono appunto denominate Micro Rhythms.
Queste deviazioni non sono casuali, sono specifiche e definite, ma non rappresentabili con le codifiche esistenti. Per fortuna questo non è un problema, poiché possiamo comunque imparare a gestirle ‘a orecchio’.
Non dimentichiamo inoltre che quello che consideriamo musicalmente corretto è una convenzione, è puro condizionamento culturale. Pensiamo all’armonia, per cui soluzioni usate da altre culture sono ‘stonate’ secondo la nostra concezione.
Lo stesso vale ovviamente per la ritmica, per tutta la musica e anche per tutta l’arte in generale.
Possiamo racchiudere nei micro ritmi i seguenti fenomeni, molti dei quali sono discussi a fondo in tutto Altitude Drumming e in particolare nel volume ‘Theory & Concepts’:
1– Distorsioni e deviazioni da pattern esattamente dritti, come appena detto. Il caso più comune, con cui alcuni di noi avranno già familiarità, è quello dei livelli di shuffle. Lo shuffle comunemente è inteso a terzine di ottavi (o terzine di sedicesimi).
Ma può anche essere più stretto, suonato ad esempio sui sedicesimi, oppure più largo, nel mezzo tra ottavi e terzine, nonché in tutte le posizioni intermedie tra i vari estremi. La maggior parte di questi livelli di shuffle non si può scrivere, e rientra appunto nei micro ritmi.
Un altro caso molto popolare è quello dei sedicesimi nella Samba, che sembrano inciampare e danno un rotolamento del tutto caratteristico e imprescindibile se vogliamo suonare correttamente questo genere.
2– Suonare Ahead o Behind the Beat. E’ possibile suonare esattamente sulla pulsazione, ma possiamo anche spostare alcune delle note avanti o indietro di pochi millisecondi rispetto alla pulsazione.
3– Time Morphing. Possiamo prendere uno stesso gruppo di note e suonarlo non solo su griglie diverse, ma addirittura in infinite sfumature comprese tra gli estremi delle due griglie. Una sorta di estensione dei concetti di interpretazione shuffle e livelli di shuffle.
4– Lo Swag Drumming, o ‘Drunk Feel’, molto popolare negli ultimi anni, inventato dal produttore J Dilla, e poi reso famoso da vari batteristi, primi fra tutti Questlove e Chris Dave.
Nessuna di queste soluzioni è catalogabile nelle normali caselle in cui siamo abituati a pensare il tempo e le suddivisioni, e non è scrivibile.
Eppure funziona, è incredibilmente musicale ed è anche più espressiva delle normali ritmiche. Come è possibile?
Le chiavi sono due: la prima è la continuità. Come in qualsiasi area del drumming, il ‘come’ suoniamo una cosa e quanto la suoniamo convinti e con coerenza e con continuità, è altrettanto importante quanto il ‘cosa’ suoniamo.
I micro ritmi, anche se comportano l’esecuzione di ritmi non convenzionali, presuppongono che questi siano suonati con coerenza e un’adeguata precisione per essere convincenti, altrimenti diventano solo esperimenti senza senso.
Possiamo essere ‘storti’ quanto vogliamo, ma se lo siamo sempre nello stesso modo, se è tutto regolare e se tutto viene suonato con padronanza e convinzione, quel modo allora diventa una caratteristica, e non un difetto.
Anzi, diventa più umano, più ricco di emozione: e questa è la seconda chiave. Difatti, con l’avvento dell’elettronica abbiamo per la prima volta avuto la possibilità di ascoltare delle successioni di note riprodotte da un computer con perfezione assoluta.
Solo per scoprire che qualsiasi cosa suonata così diventa totalmente priva di emozione.
Difatti cosa usano i produttori di musica elettronica per rendere più emozionanti i loro beats? I micro ritmi!
E’ proprio il fatto che, anche se precisi, non siamo perfetti, a rendere emozionante quello che suoniamo, perché è tramite quelle infinitesimali imperfezioni che la nostra unicità, le nostre emozioni e le nostre caratteristiche hanno modo di emergere e di venire comunicate all’ascoltatore.
Attenzione però a non finire all’estremo opposto. Seguendo la logica appena esposta, alcuni sostengono che troppa precisione pregiudica il feeling e fa suonare ‘freddi’ e senza emozione.
E che meno precisione significa più feeling. E’ un errore, che nasce dal presumere che l’essere umano possa suonare perfetto come un computer e quindi diventare inespressivo a quel livello.
Nessun batterista, neppure tra i migliori al mondo, è neanche lontanamente vicino al livello di perfezione di esecuzione di un computer.
Le imperfezioni di cui parliamo sono infinitesimali, ma ci sono e sono magari solo percepibili piuttosto che udibili, ma fanno la differenza.
Capiamo quindi che se un batterista precisissimo non ha feeling, il motivo non è che è troppo perfetto, ma risiede nel fatto che probabilmente ha una parte emozionale non particolarmente sviluppata, o non è rilassato, o non conosce e non sa controllare i livelli che abbiamo appena discusso.
La precisione non va perciò confusa col feeling, perché si tratta di due parti diverse. Il feeling viene generato dall’effetto combinato del livello emozionale e del livello concettuale di controllo del beat (ossia precisamente i micro ritmi).
E’ il caso di dedicare qualche riga a questa precisazione. Come spiegato in questo articolo di approfondimento, uno dei fili conduttori della filosofia Confident Drummer è la consapevolezza che ognuno di noi suona usando tre parti, che si intrecciano tra loro ed emergono ad ogni nostra nota.
Sono le tre parti che costituiscono il nostro funzionamento: la parte fisica, la parte logica e quella emozionale (una quarta parte può essere considerata la componente creativa).
In questo modello ognuna di queste parti ha un suo ruolo preponderante, ossia la parte fisica determina soprattutto la nostra tecnica, quella logica il nostro stile e quella emozionale le sensazioni che comunichiamo.
Con i micro ritmi (e con tutta la teoria) stiamo studiando la parte logica (intellettuale, concettuale e razionale) del suonare.
Le tre parti sono ovviamente collegate e dipendenti l’una dall’altra: non importa quanto sviluppiamo la parte concettuale, se questa non è supportata da uno sviluppo adeguato della parte fisica (ossia da una tecnica in grado di eseguire le idee in maniera dettagliata), e da una parte emozionale molto intensa, non potremo comunque metterla in pratica in maniera efficace.
La cosa affascinante dei micro ritmi è che, pur trattandosi di una componente della parte concettuale del suonare, questa componente è in grado di influenzare le emozioni che comunichiamo e di cui inondiamo la musica.
Queste soluzioni possono creare e trasmettere emozioni, che si sommano a, o possono addirittura prevaricare, quelle che stiamo provando mentre suoniamo.
Abbiamo un livello che è quello delle emozioni provate, e un altro che sono le sensazioni provocate da come ci relazioniamo al beat, al timing e suddivisioni, e a come li manipoliamo.
Possiamo quindi usare questa parte logica/concettuale per influenzare il modo in cui comunichiamo emozioni.
Ognuno ha il suo modo particolare di esprimersi, così come ognuno parla in modo diverso. E’ grazie a queste caratteristiche peculiari che siamo riconoscibili.
I micro ritmi e tutti i dettagli che emergono da questo tipo di studi sono uno dei modi in cui possiamo diventare più personali nel nostro approccio al suonare e meno uniformati (oltre allo sviluppo di un nostro suono, alla nostra tecnica, al nostro pathos e al nostro stile musicale – argomenti discussi in altri articoli e lezioni).
E’ un’arte a sé stante che è importante riconoscere, studiare e fare propria, perché se suonassimo tutti su griglie perfette come da notazione musicale, saremmo più incasellati, ci sarebbe molta meno personalità e avremmo perso una grande fetta della possibilità di comunicare emozioni con l’arte di fare musica.
I micro ritmi e le loro sfumature contribuiscono quindi alla creazione della nostra parte stilistica, a renderci unici e a trovare la nostra voce.
Va detto però che è un territorio che si può complicare molto e personalmente noto una tendenza (anche in me stesso) a voler approfondire l’argomento in maniera fin troppo analitica.
Non dimentichiamo che l’effetto che vogliamo ottenere dall’applicazione di questi concetti è quello di generare un certo feeling, e di poterlo controllare mediante la conoscenza e padronanza di questi dettagli.
Quindi l’obiettivo è di averne una comprensione completa e di studiare per padroneggiarne l’effetto, non di conoscere le formule matematiche che ci sono dietro e i millisecondi esatti.
Per chi è curioso internet pullula di spiegazioni dettagliate anche da un punto di vista matematico (se conosci l’inglese prova a cercare su Google ‘micro rhythms study’, i risultati sono abbastanza impressionanti).
Va benissimo informarsi, a patto di non perdere di vista che il motivo di farlo è capire, per fare musica, senza far diventare il mezzo un fine.
Risorse correlate:
‘Groove Mastery & Formulas’ – Altitude Drumming – Volume 8
‘Theory & Concepts’ – Altitude Drumming – Volume 1
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